Il viaggio a Ninive, dal Libro di Giona.

(Caserta24ore) - Il nostro terzo appuntamento con la rubrica il giardino del libro e' dedicato al profeta Giona.
Per la sua brevità il libro di Giona è stato inserito tra i cosiddetti profeti minori ma, più che della effettiva messa per iscritto della predicazione di un profeta, come avviene per Isaia, Geremia e per tutti gli altri profeti maggiori e minori, si tratta di una sorta di "racconto esemplare" come quelli di Tobia e Giuditta, catalogati invece tra i libri storici dell'Antico Testamento. Si pensa che sia stato scritto molto tempo dopo l'epoca a cui si riferisce, in ambiente postesilico. Nel capitolo 1 la Parola del Signore è rivolta a Giona, figlio di Amittai, a cui viene comandato di andare a predicare a Ninive città dei malvagi pagani. Giona disobbedì invece e fugge a Tarsis, ma la nave fu colta da un temporale rischiando di colare a picco per la violenza delle onde. Giona allora ritrova improvvisamente il proprio coraggio e svela ai compagni di viaggio che la colpa dell'ira divina è sua, poiché ha rifiutato di obbedire e affinché la nave sia salva egli deve essere gettato in mare. Nel capitolo 2, Giona fu gettato in mare un "un grosso pesce" lo inghiottì. Dal ventre del pesce, dove rimase tre giorni e tre notti Giona rivolge a Dio un'intensa preghiera, che ricorda uno dei Salmi. Allora, dietro comando divino, il pesce vomita Giona sulla spiaggia. Nel capitolo 3, Giona ottempera la sua missione e va a predicare ai niniviti, questi, contro ogni aspettativa, gli credono, proclamano un digiuno, si vestono di sacco e Dio decide di risparmiare la città. Ma qui riemerge l'istinto ribelle di Giona: lui non è contento del perdono divino, voleva la punizione della città di Ninive. Così si siede davanti alla città e chiede a Dio di farlo morire. Nel capitolo 4, il Signore fa spuntare un ricino sopra la sua testa per apportargli ombra, ed egli se ne rallegra, all'alba del giorno dopo un verme rode il ricino che muore, il sole e il vento caldo flagellano Giona, che invoca nuovamente la morte. Allora l'autore riporta le parole di Dio, divenute celeberrime: « Tu ti dai pena per quella pianta di ricino per cui non hai fatto nessuna fatica e che tu non hai fatto spuntare, che in una notte è cresciuta e in una notte è perita; ed io non dovrei aver pietà di Ninive, quella grande città, nella quale sono più di centoventimila persone, che non sanno distinguere fra la mano destra e la sinistra, e una grande quantità di animali? »
Ninive era un chiaro simbolo di oppressione per Israele, eppure a Giona, che qui rappresenta il rifiuto di questa nuova politica, è chiesto di invitare alla conversione proprio quella città, dopo che aveva accettato a malincuore di farlo, il suo rifiuto della decisione divina di risparmiare la città, spiega bene i motivi della fuga nella direzione opposta. Giona non si rassegna ad accettare un Dio misericordioso, preferendo gli il Dio del giudizio inesorabile, soprattutto contro un impero tanto odioso come quello assiro. Al suo sfogo, che rasenta la bestemmia, Iddio risponde sul ricino il cui significato è altrettanto chiaro. Noi tutti siamo pronti a preoccuparci per le piccole cose della vita; perché Dio non dovrebbe preoccuparsi altrettanto dell'intera umanità, anche quella peccatrice e pagana, affinché possa essere salvata essa pure? Ed è a questo punto che siamo contenti di ospitare la nostra lettrice Maddalena, due lauree in teologia ed un percorso di ricerca presso l'università di Palermo dopo Giuseppina con la sua semplicità proseguendo con un nesso logico il racconto di Pinocchio di Collodi che a quanto pare fu ispirato proprio dal libro di Jona nella descrizione della balena, ci riporta il suo commento e l' interpretazione del libro. "Giona riconosce che è stato Dio a gettarlo nel profondo del mare. Cioè, Giona riconosce che era la disciplina di Dio a mandare la tempesta e costringere i marinai a gettarlo in mare. Questo dimostra un cuore contrito. È molto importante per noi riconoscere quando Dio ci disciplina. Quando il nostro cuore non è ravveduto, cerchiamo di giustificare il nostro comportamento. Cerchiamo di vedere la situazione come se fosse frutto del caso, oppure colpa di qualcun altro. Un frutto del vero ravvedimento è il riconoscere che quando abbiamo un peccato non confessato, spesso il male che ci succede è la disciplina di Dio, dovuta al nostro peccato. Giona riconosceva questo, perché era veramente ravveduto. Notate che nei versetti da 5 ad 8 Giona dichiara di essere stato scacciato dalla presenza di Dio, e di essere affondato nell'acqua, perdendo ogni speranza. È in quel momento che ha guardato a Dio. Notate che Giona non guardò a Dio finché non perse la speranza. Quanto ci danneggia il nostro peccato! Nel versetto 3 Giona dichiara: “ Nella mia sventura ho gridato all’Eterno ed egli mi ha risposto dal grembo dello Sceol, ho gridato e tu hai udito la mia voce.” E' stato nella sventura che ha gridato a Dio, non prima. Giona dichiara la stessa cosa nel versetto 8. “ Quando la mia anima veniva meno dentro di me, mi sono ricordato dell’Eterno, e la mia preghiera è giunta fino a te, nel tuo santo tempio.” Avete notato a che punto Giona si è ricordato dell'Eterno? Quando la sua anima veniva meno dentro di lui. Cioè, quando era senza speranza, quando ha capito che tutto era perso, quando ha capito che la sua ribellione lo aveva portato alla disperazione, lontano da Dio. Questo esempio di Giona ci rivela che è una grande stoltezza aspettare finché non si è in condizioni disperate prima di arrenderci a Dio. Cioè, Giona ha subito una disciplina terribile, ma era tutto evitabile. Se Giona avesse semplicemente ubbidito a Dio all'inizio, avrebbe evitato questa esperienza terribile.Il popolo di Dio, che aveva ricevuto benedizioni dopo benedizioni da Dio, che aveva la legge di Dio, che aveva le promesse di Dio, che conosceva la cura di Dio da secoli, nonostante questo, Israele aveva ignorato l'esortazione di Dio tramite i profeti. Invece le persone di Ninive che avevano seguito sempre falsi dei, sentendo questo avvertimento da Dio tramite Giona, si ravvidero subito, dal più grande al più piccolo. Perfino il re della città si umiliò profondamente. Il peccato di idolatria è gravissimo, la separazione da Dio è la condanna eterna, il tormento eterno, Ringraziamo la nostra lettrice per questa chiara, attenta riflessione del testo. (a cura di Maria Grazia Capanna)

Commenti