Teano / Sparanise. Lucio Mesolella testimone di guerra nella Striscia di Gaza.

(Paolo Mesoella) TEANO / SPARANISE Ricorda quando sotto i bombardamenti di Gaza incontrò Fattore, uno sparanisano. Ottant’anni fa, nel 1944, a Gaza, nella Striscia di Gaza già c’era la guerra. Erano gli ultimi fuochi della seconda guerra mondiale e mio padre Lucio Mesolella partecipò alla battaglia di Mareth in Tunisia, attraversò l’Egitto e la Striscia di Gaza prima di cadere prigioniero dagli Inglesi ed essere rinchiuso nei campi di concentramento di Amallaga a Tripoli, nel campo 308 di Rosetta presso Alessandria d’Egitto e nel campo 680 di Gerusalemme in Palestina. Fu proprio nella Striscia di Gaza che nel suo “Diario di guerra” ricorda un incontro provvidenziale con un soldato di Sparanise. Il ricordo è sicuramente di attualità se si considera che dopo 80 anni Gaza e la Striscia sono ancora costrette a convivere con la Guerra. Il soldato sparanisano lo conobbe durante la battaglia, sotto i bombardamenti, mentre invocava San Vitaliano, patrono di Sparanise.
Mi piace ricordare dopo tanti anni questa testimonianza con le sue stesse parole: “Quando dovevo venire in Italia, ricorda, da Suez mi hanno portato a Gaza dove un bombardamento provocò un macello: gente che moriva e feriti nella sabbia del deserto. Ad un certo punto sentii la voce di un soldato ferito che diceva “San Vitaliano, san Vitaliano, aiutami! aiutami!”. Pensai che fosse delle mie parti, allora mi rivolsi verso di lui, che era pieno di sabbia e fango e gli chiesi: ”Di dove sei?”. Lui mi rispose in dialetto:”Sono della provincia di Napoli, di Sparanise”. “Ah sei della provincia di Napoli?, continuai, e come ti trovi qua?”. Rispose: “Mi trovo qua perché sono scappato di notte dalla Grecia. Siccome i tedeschi in Grecia ammazzano gli italiani sono scappato, mischiato tra le truppe da sbarco, per arrivare in Palestina e a Gaza”. Dopo quelle parole, nel fuggi fuggi, non ci siamo più visti. Anche io rimasi ferito, mi portarono in quarantena a Suez e poi con la nave mi portarono ad Alessandria d'Egitto”. Mio padre Lucio scrisse i suoi ricordi di guerra a 93 anni. Nonostante la guerra, la prigionia e l'età infatti i momenti vissuti durante la guerra in Africa erano rimasti indelebili nella sua mente. E li raccontò il 27 aprile 2014, nella Piccola Libreria 80mq a Calvi Risorta, in occasione della presentazione del libro “Volti dimenticati”. Soldato di leva della classe 1922, fu ammesso in ritardo al servizio militare perché iscritto all'ultimo anno dell'Istituto Magistrale a Napoli. Il 3 ottobre 1942 poi, fu aggregato a Salerno nel 15° Reggimento Fanteria con matricola 13908; dopodiché, il 30 gennaio 1943, fu trasferito al 100° Rgt Fanteria di marcia e vi rimase fino a quando il 12 febbraio 1943 fu imbarcato in aereo a Castelvetrano in Sicilia per sbarcare a Tunisi, dove rimase in territorio di guerra tre anni fino al 1946. Combatté come caporalmaggiore nel 65° Rgt Fanteria “Trieste” dal 12 febbraio al 6 aprile 1943, fino a quando, durante la battaglia di Mareth in Tunisia, fu fatto prigioniero dagli Inglesi e fu recluso nel campo di concentramento 308 di Alessandria d'Egitto dove rimase dal 4 aprile 1943 al 27.7.1946. Quando fu rimpatriato da Port Said e sbarcò a Napoli il 27 luglio 1946, fu trattenuto nell'ospedale militare a causa di un' infermità di servizio. Così lui ricorda la chiamata alle armi: “Fui richiamato con la classe 1922 e fui inviato a Salerno nel 15° Reggimento Fanteria. Partimmo dall'aeroporto di Castelvetrano, diretti in Tunisia, con lo scopo di arginare l'avanzata inglese, perciò subito ci portarono in prima linea, sul fronte di Mareth. Tra di noi e gli Inglesi c'era un grande campo minato. Sostammo circa un mese sotto i bombardamenti aerei, ma a marzo, mentre le truppe americane sbarcavano in Algeria, gli inglesi ci attaccarono sul fronte tunisino. Furono tre mesi d’inferno. Poi fui fatto prigioniero il 6 aprile 1943, all'alba: il campo minato era pieno di fumo. In un primo momento credevamo che fosse gas, invece avevano lanciato delle bombe lacrimogene. All'improvviso comparvero i fucilieri inglesi, scozzesi e indiani che ci intimarono di alzare le mani. E poi si vedevano per terra tanti morti che erano saltati sulle mine. Dopo un chilometro di cammino con le mani alzate (eravamo in tanti) uscimmo dal campo minato e ci trovammo raggruppati in un campo di raccolta, guardati a vista dalle guardie indocinesi, mezzi nudi, nel freddo della notte. Il mattino seguente ci caricarono su un camion e ci portarono in un campo di smistamento ad Amallaga di Tripoli dove l'Italia aveva un circuito per le corse automobilistiche. Tripoli, infatti allora, con tutta la Libia era territorio italiano. Dal campo di Tripoli, su navi indiane e pescherecci inglesi, fummo trasportati in Egitto, sotto le stive, al buio: le navi erano cariche di truppe di tutte le razze che dovevano sbarcare in Italia. Noi avevamo paura dei sommergibili italiani che avevano già colpito diverse navi transitate in precedenza. Nel campo 308 di Tripoli dove c'erano molti italiani, ci trattavano male perché eravamo in tanti e mancavano sia il cibo che l’acqua. In pochi giorni infatti avevano fatto migliaia di prigionieri e noi dovevamo rimanere sotto il sole, per vedere quando arrivavano le autobotti dell'acqua. Spesso stavamo giornate intere sotto il sole, ad aspettare l'arrivo dell'acqua e del cibo. Dopo alcuni giorni, grazie a Dio, arrivammo a Suez: non ci vedevamo più per la fame. Da Suez ci portarono nei pressi di Alessandria d'Egitto nel campo 308 di Rosetta, dove vi erano più di 100 mila prigionieri chiusi in “gabbie” recintate da fili spinati elettrici ed eravamo guardati a vista da sentinelle armate indocinesi poste sopra delle torri di guardia. Le guardie indocinesi erano tagliatori di teste, ai fianchi portavano coltelli ed un mitra e la sera sparavano continuamente contro ogni ombra che vedevano avvicinarsi. Lungo il perimetro del campo infatti vi erano numerosi gabinetti a fosso maleodoranti. A causa del troppo caldo e del vitto sempre uguale (piselli con carne di pecora), avevamo preso l'intercolite, per cui avevamo sempre il desiderio di andare al bagno ed eravamo costretti ad andarci spesso. Ogni tanto mancava qualcuno dalla tenda. Dormivano venti persone per ogni tenda, allestita in mezzo alla sabbia e quando qualcuno spariva, nessuno si preoccupava. Anzi si faceva spazio. Ogni mattina passava un sergente inglese e domandava in quanti eravamo rimasti per portarci il pane. Una volta a settimana ci facevano fare il bagno a mare che si trovava a circa 200 metri dal campo. Per il resto stavamo sempre nella tenda perché fuori faceva molto caldo. E poi nella sabbia vi erano molti insetti che ci tormentavano. Dopo l'Armistizio entrai a far parte della 2746^ Compagnia di lavoratori cooperatori e vi restai fino al 10 luglio 1946. In tanti andarono in India, Inghilterra, Sud Africa, Kenia. io invece andai in Palestina, al campo 680 di Gerusalemme. Per questo motivo ho avuto la possibilità di visitare la Città Santa di Gerusalemme e di andare a Betlemme, Betania e negli altri luoghi santi. Vicino al posto dove lavoravamo c'erano una chiesa ed un convento delle Suore Clarisse Francescane di clausura. Ricordo ancora, con riconoscenza, una suora italiana, suor Chiara Verrini di Busto Arsizio, che ha fatto molto per aiutare noi prigionieri. Ci dava del cibo e soprattutto medicinali quando avevamo problemi di salute. A Gerusalemme, in Terra Santa fui anche cresimato il 27 settembre 1944 dal Patriarca latino di Gerusalemme De Aloysio Barlassina con padrino Alberto Alonzo, Viceconsole di Terra Santa. Sono ritorrnato in Italia, a Napoli, il 27 luglio 1946, la mamma di Fattore, il soldato visto a Gaza durante il bombardamento, mi chiese notizie del figlio e poi disse:” Quelli (i Fascisti) mi hanno già fatto fare il funerale!”. La notte a piedi, da Sparanise attraverso Montanaro, è venuta a Teano. Io ero arrivato la sera prima e tutta la notte non ero riuscito a dormire. All'alba la donna è arrivata a casa mia, a Sant'Agostino. “Ma è vero – mi chiese – che avete visto mio figlio?”. “Si, l'ho visto! Mi ha anche detto che veniva dalla Grecia”. La povera donna quasi sveniva davanti a me. Dopo otto mesi finalmente Fattore ritornò e i genitori mi invitarono a casa loro, in Via Le Castagne a Sparanise. Io sono sceso dal treno ed ho chiesto la strada ad un vecchietto che fumava la pipa davanti ad una falegnameria. ”Scusate – gli chiesi – sapete dove abita Fattore?”. “Quello che portavano per morto?”. Mi rispose. “Si”, continuai io, e mi indicò la strada. Quel vecchietto, Giovanni D'Angelo, dopo cinque anni, è diventato il nonno dei miei figli. Durante la battaglia di Maretrh, tra i morti rimasti sul campo minato e sotto i bombardamenti, furono ritrovate la giacca della mia divisa e la mia piastrina di guerra; la circostanza fu comunicata al Distretto militare di Caserta e al segretario politico di Teano che pensò di onorare il “caduto” facendone celebrare i funerali nella chiesa di S. Agostino a Teano. La Provvidenza, invece, ha voluto che continuassi a vivere con i miei figli per altri cinquant'anni, fino all’8 aprile 2017, fino all’età di 96 anni”.

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