Calvi Risorta. Tra Calvi e Rocchetta e Croce la grotta dei soldati: un rifugio nella memoria

I recenti lavori di disboscamento e la prolungata siccità che ha prosciugato il corso del fiume Lanzi hanno reso nuovamente accessibile una grotta carsica ormai nota in paese come "la grotta dei soldati". Nascosta tra la vegetazione e affiorante sul greto del torrente, questa cavità rocciosa è tornata alla luce dopo decenni di oblio, riportando con sé un frammento di storia vissuta, di coraggio silenzioso e di umanità nel caos della guerra. Durante la Seconda Guerra Mondiale, nel drammatico periodo dello sbandamento dell’esercito italiano seguito all’armistizio dell’8 settembre 1943, sei o sette soldati meridionali bussarono alla porta di una masseria nei pressi di Rocchetta e Croce. Erano stremati, in fuga dai tedeschi, privi di ordini e di speranza. Senza più un comando, abbandonati dallo Stato, cercavano un rifugio, un tozzo di pane, un gesto di pietà. I contadini del luogo, tra cui Pietro Cifone, non esitarono. Nonostante il rischio di rappresaglie, nascosero i militari nella grotta carsica vicina al fiume, sfamandoli per settimane con quel poco che la terra offriva. Di notte, portavano cibo e acqua; di giorno, mantenevano il silenzio, pregando che nessuno scoprisse il nascondiglio. In quei mesi, il fronte era bloccato a Cassino, e la Linea Gustav resisteva agli attacchi alleati. I tedeschi utilizzavano la via del Monte Maggiore per attraversare i preappennini e rifornire le postazioni difensive intorno a Montecassino. I soldati italiani, disorientati e isolati, non potevano conoscere le dinamiche strategiche del conflitto. Fuggivano alla rinfusa, in cerca di salvezza, sperando nell’arrivo degli angloamericani. «Qualche giorno dopo che avevamo nascosto i nostri ragazzi», racconta un anziano del posto, «arrivò anche un gruppo di tedeschi. Erano sbandati, stanchi, affamati. Non cercavano combattimenti, ma cibo. Razziarono la masseria, portarono via patate, farina, qualche animale, ma non uccisero nessuno. Poi se ne andarono. Dopo poco, però, ne arrivarono altri, più organizzati: allestirono il campo e stabilirono il quartier generale proprio nella nostra corte.» È probabile che quei soldati avessero già commesso crimini di guerra, come la strage di Bellona, e temessero ora la reazione dei contadini o l’insorgere delle prime formazioni partigiane. La prudenza li spinse a evitare ulteriori violenze, anche se il clima restava carico di tensione. Dopo circa una settimana, i tedeschi abbandonarono la masseria. Passò quasi un mese di attesa angosciosa. Poi, una sera, tra i bagliori delle lanterne, apparvero le divise degli inglesi. Erano arrivati. Alcune di quelle lanterne furono lasciate proprio nella grotta, dove i soldati alleati si stabilirono per qualche giorno, trasformandola temporaneamente in un avamposto. Prima di tutto, bussarono alla masseria. Venivano in pace, sorridevano, distribuivano caramelle ai bambini. Si fecero condurre alla grotta, incontrarono i soldati italiani e raccolsero le loro testimonianze. Fu allora che quegli uomini capirono: la guerra stava finendo. La liberazione era vicina. I militari italiani, accompagnati da Pietro Cifone e dagli altri contadini, furono scortati fino alla strada principale, dove poterono finalmente ricongiungersi con le forze alleate. Prima di partire, promisero che sarebbero tornati. Per anni, però, non si seppe più nulla di loro. Poi, un giorno, bussarono di nuovo alla masseria quattro uomini: due napoletani e due siciliani — il tenente Colasanto di Salerno, La Terza Fabrizio di Policastro, Salvatore Marino di Palermo e l’ufficiale Di Caro Giovanni, anch’egli siciliano. Erano tornati per ringraziare, a nome di tutti, Pietro Cifone, l’uomo che li aveva salvati. Chi non poté tornare di persona inviò una cartolina. Tra queste, quelle di Giovanni Fiorentino di Campolongo (Salerno) e del soldato Ferrè Paolo, semplici messaggi di gratitudine che oggi custodiscono un’eredità di riconoscenza. Negli anni Cinquanta, a guerra ormai conclusa, tornarono a Calvi Risorta anche alcuni tedeschi. Bivaccarono per alcuni giorni nel Castello Aragonese, oggi in fase di restauro, e furono accolti con una cordialità sorprendente, segno di una comunità che, pur ferita, sapeva distinguere tra soldati e crimini di regime. Se ne andarono improvvisamente, lasciando tracce di scavi all’interno del maniero. Ancora oggi, resti di buche e strumenti rudimentali fanno pensare a un tentativo di recuperare il bottino di guerra nascosto durante il conflitto — frutto delle razzie compiute nei mesi bui dell’occupazione nazista. Un luogo di memoria Oggi, la grotta dei soldati non è solo un’antica cavità carsica: è un monumento alla solidarietà, alla resistenza silenziosa del popolo contadino, a quegli atti di umanità che, anche nel buio della guerra, hanno acceso piccole luci di speranza. La sua riapertura, dovuta al caso e al cambiamento climatico, ci ricorda che la storia non va mai dimenticata. E che a volte, basta una lanterna accesa in una grotta per illuminare un’intera generazione.

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